Non avevo ancora quattordici anni quando ho iniziato a colorare i miei primi striscioni. Non c’erano maestri a insegnarmi quello che il tempo e la strada mi hanno insegnato. È stata la mia palestra di vita. Con gli amici, compagni inseparabili lungo le vie che conducevano ai nostri sogni adolescenziali. Quattro calci per strada al pallone e quelle partite che non finivano mai, quel “super santos” che per noi era qualcosa di più di un semplice pallone. Tornavamo a casa la sera sempre sudati e neri di polvere e con le ginocchia sbucciate in pantaloni continuamente bucati. Erano gli anni della spensieratezza, delle corse a perdifiato, dei sogni. Erano gli anni dove cresceva forte l’amicizia. Grande era la passione per la nostra città. Grande l’amore per la squadra della nostra città. Erano pochi gli anni in quel pentagramma chiamato vita. Ci sentivamo invincibili di fronte al mondo, con la forza della nostra disordinata compattezza.
Quell’edificio scolastico di via Pascoli, con la sua recinzione, al centro della città. Punto del nostro universo. Alberi, verde e sassi e quella scuola al centro di quel fortino. Era il nostro west. Scavalcavamo la recinzione e lasciavamo il mondo fuori. La città con i suoi “mostri” era vinta, dimenticata. E allora giù a correre, ridere a caricarci di vita in infinite partite senza sosta.
Siamo cresciuti in quel quartiere di case popolari. Binda, Bruno Maisto, testimoni di un mondo semplice, orgoglioso e onesto sono stati tasselli essenziali nel puzzle della nostra esistenza.
In quell’angolo di vita fortificammo la fede per il Cassino. Lì iniziammo a disegnare, ad abbozzare i primi striscioni. A colorare le bandiere. Lì il nonno di Maurizio ci ricaricava le batterie d’auto per le trombe. Da lì partivamo la domenica mattina in gruppo. Non conoscevamo giornate di sole o di pioggia. Sopportavamo il peso delle batterie che a turno lungo il tragitto fino allo stadio a mano portavamo. Entravamo in quello stadio che ci ha visto crescere. Era la nostra seconda casa. Lì abbiamo conosciuto gioie e dolori profondi.
Lì portavamo i nostri primi tamburi, carcasse di bidoni di ferro. Le bacchette erano mazze di scopa. Entravamo con campanacci pesanti e rumorosi. Le bandiere erano sorrette da canne di bambù. Poi nel tempo i nostri striscioni erano più precisi. I tamburi erano quelli delle bande musicali, le aste delle bandiere tubi leggeri in plastica. Entravamo con i fumoni. Entravamo la mattina a preparare le coreografie e nelle partite importanti mangiavamo allo stadio. Era casa nostra.
Abbiamo consumato la vita su e giù, sulle gradinate di stadi di mezza Italia. Abbiamo masticato nelle domeniche di calcio il pane della nostra passione. Eravamo liberi in un mondo libero. Ci sentivamo ricchi senza una lira in tasca. Nessuno ci vietava la nostra fede. Nessuna legge offendeva i nostri ideali. Non abbiamo mai fatto del male a nessuno con gli strumenti del nostro tifo. Non hanno mai ammazzato nessuno le nostre coreografie domenicali.
Adesso ho più di quarantacinque anni, un figlio di quasi cinque anni e un’altra che tra poco di anni ne compirà diciannove. La fede incrollabile per la squadra della mia città mi spinge la domenica ancora allo stadio ma quel posto che mi ha visto crescere e regalato gioie ed emozioni incancellabili, quello stadio, quell’isola felice oggi non è più casa mia.
Affaristi senza scrupoli, faccendieri incalliti sostenuti da politicanti da strapazzo. Ladri di poesia. Mistificatori di sogni. Hanno rubato a quelle gradinate i suoni, i colori. Gli striscioni, i tamburi, le bandiere che bucavano il cielo. Hanno rubato la mia identità. Hanno mortificato la mia intelligenza. Hanno spogliato le nostre curve della parte più bella e viva; folklore, goliardia, e fantasia.
Queste leggi che ci obbligano a denunciare anche la più piccola pezza se questa reca qualche scritta. I nostri nomi negli schedari di commissariati di mezza Italia. In trasferta ci impacchettano nei pullman come sardine e lungo il tragitto sei obbligato a seguire percorsi e fermate già pianificate.
Non si scende neanche per pisciare. Leggi su leggi che umiliano e discriminano.
Ma siamo ancora qui, vivi e orgogliosi del nostro modo di essere, di fare, senza tempo, senza legge... Sono passati trent’anni. Avevo tutto e non ho più nulla.
Quell’edificio scolastico di via Pascoli, con la sua recinzione, al centro della città. Punto del nostro universo. Alberi, verde e sassi e quella scuola al centro di quel fortino. Era il nostro west. Scavalcavamo la recinzione e lasciavamo il mondo fuori. La città con i suoi “mostri” era vinta, dimenticata. E allora giù a correre, ridere a caricarci di vita in infinite partite senza sosta.
Siamo cresciuti in quel quartiere di case popolari. Binda, Bruno Maisto, testimoni di un mondo semplice, orgoglioso e onesto sono stati tasselli essenziali nel puzzle della nostra esistenza.
In quell’angolo di vita fortificammo la fede per il Cassino. Lì iniziammo a disegnare, ad abbozzare i primi striscioni. A colorare le bandiere. Lì il nonno di Maurizio ci ricaricava le batterie d’auto per le trombe. Da lì partivamo la domenica mattina in gruppo. Non conoscevamo giornate di sole o di pioggia. Sopportavamo il peso delle batterie che a turno lungo il tragitto fino allo stadio a mano portavamo. Entravamo in quello stadio che ci ha visto crescere. Era la nostra seconda casa. Lì abbiamo conosciuto gioie e dolori profondi.
Lì portavamo i nostri primi tamburi, carcasse di bidoni di ferro. Le bacchette erano mazze di scopa. Entravamo con campanacci pesanti e rumorosi. Le bandiere erano sorrette da canne di bambù. Poi nel tempo i nostri striscioni erano più precisi. I tamburi erano quelli delle bande musicali, le aste delle bandiere tubi leggeri in plastica. Entravamo con i fumoni. Entravamo la mattina a preparare le coreografie e nelle partite importanti mangiavamo allo stadio. Era casa nostra.
Abbiamo consumato la vita su e giù, sulle gradinate di stadi di mezza Italia. Abbiamo masticato nelle domeniche di calcio il pane della nostra passione. Eravamo liberi in un mondo libero. Ci sentivamo ricchi senza una lira in tasca. Nessuno ci vietava la nostra fede. Nessuna legge offendeva i nostri ideali. Non abbiamo mai fatto del male a nessuno con gli strumenti del nostro tifo. Non hanno mai ammazzato nessuno le nostre coreografie domenicali.
Adesso ho più di quarantacinque anni, un figlio di quasi cinque anni e un’altra che tra poco di anni ne compirà diciannove. La fede incrollabile per la squadra della mia città mi spinge la domenica ancora allo stadio ma quel posto che mi ha visto crescere e regalato gioie ed emozioni incancellabili, quello stadio, quell’isola felice oggi non è più casa mia.
Affaristi senza scrupoli, faccendieri incalliti sostenuti da politicanti da strapazzo. Ladri di poesia. Mistificatori di sogni. Hanno rubato a quelle gradinate i suoni, i colori. Gli striscioni, i tamburi, le bandiere che bucavano il cielo. Hanno rubato la mia identità. Hanno mortificato la mia intelligenza. Hanno spogliato le nostre curve della parte più bella e viva; folklore, goliardia, e fantasia.
Queste leggi che ci obbligano a denunciare anche la più piccola pezza se questa reca qualche scritta. I nostri nomi negli schedari di commissariati di mezza Italia. In trasferta ci impacchettano nei pullman come sardine e lungo il tragitto sei obbligato a seguire percorsi e fermate già pianificate.
Non si scende neanche per pisciare. Leggi su leggi che umiliano e discriminano.
Ma siamo ancora qui, vivi e orgogliosi del nostro modo di essere, di fare, senza tempo, senza legge... Sono passati trent’anni. Avevo tutto e non ho più nulla.
PAOLO dei FEDAYN 1977
Nessun commento:
Posta un commento